Assaggiando la tradizionale pasticceria giapponese
Eccoci in Giappone, uno di quei posti che per noi rientra in quello che chiamiamo “l’altra parte del mondo”.
Ed in effetti, lo è davvero. Cammini per le strade e non capisci nulla di ciò che si dice e di ciò che è scritto, la maggior parte delle persone che incontri sono orientali, una buona parte non parla inglese e tu sei perso in un paese che incanta per l’essere così dannatamente unico.
Inizi a saper dire tre parole con cui non sopravviveresti mai, ma infondo non te ne frega assolutamente nulla.
Sono solo al secondo giorno e sono sicura che non è l’ultima volta che ve ne scrivo…
Oggi però vale la pena rendervi partecipi della degustazione di pasticceria tradizionale giapponese che abbiamo fatto io e Valerio grazie a Hiromitsu Takahashi. E’ un uomo di 61 anni, pasticciere professionista e presidente della pasticcieria “Kashou Shirotao” della provincia di Chiba (una città a 1 ora da Tokyo). E se mi avessero detto di immaginarmi un pasticcere giapponese della sua età, mi sarei immaginata proprio lui.
Ci ha portato questi dolcetti raccomandandosi che alcuni dovessimo mangiarli oggi mentre altri potevano resistere anche qualche giorno. Ovviamente le scatole sono rimaste totalmente vuote.
In ogni caso, siamo solitamente abituati alla nostra pasticceria e a quella francese, e se pensiamo a un dolce, di qualsiasi tipo si tratti, è facile che sia stracolmo di mousse, bignè, creme e cremosi, panna e burro, frolla, pan di spagna, sfoglia e tutto il resto che conosciamo fin troppo bene, magari con una glssa come finitura.
Ma se esistesse un mondo diametralmente opposto? Un mondo che ignoriamo totalmente e che probabilmente facciamo fatica a comprendere e apprezzare? Un mondo in cui il dolce ha una veste che non gli attribuiremmo mai?
Esattamente così. Quei piccoli pacchettini incartati a regola d’arte fanno parte proprio di quel pianeta su cui personalmente non ero mai sbarcata.
Ci sono gelatine appena appena zuccherate e livemente aromatizzate con un fiore che non so definire ma che ha anche una punta di blasamico. Ci sono piccoli fagottini ripieni di confettura di fagioli rossi o gialli, con particolari impasti gelatinosi come involucro, come se fosse una pellicola di amido. C’è, incartato come una merendina, una sorta di sandwich di pan di spagna farcito con una crema di fagioli al the e un altro cubotto piuttosto pesante, stratificato, al the e fagioli.
E poi ci sono splendidi fagottini incartati uno per uno con un’eleganza che ti fa quasi sentire in colpa a rovinare la confezione, che sono una sorta di sfoglia o di impasto di pane, con all’interno una castagna bollita, o un marrone semicandito.
E questi, sono semplicemente spaziali.
E’ stata una degustazione alla cieca, perchè non avevamo modo di conoscere nè i nomi nè gli ingredienti delle preparazioni. Sia per gli ideogrammi, si perchè anche il pasticcere non parlava null’altro che giapponese. E fortunatamente a inchinarci e pronunciare “arigato” l’abbiamo imparato anche noi.
In ogni caso mi è piaciuta tantissimo. E soprattutto mi sono fermata a pensare, perchè il buono non è necessariamente ciò che conosciamo e che è già mappato, ma spesso può essere nascosto in confini che nemmeno immaginavamo. Magari totalmente estranei alla nostra vita e alla nostra cultura, ma proprio per questo ancora più affascinanti.