Intervista a Renato Casaro, Airbrush Talent Show
Renato Casaro in realtà lo conosciamo tutti e quasi tutti non ne abbiamo mai immaginato l’esistenza.
Quelli della mia generazione ricorderanno sicuramente il manifesto de La Storia infinita, dei film di Bud Spencer, di Rambo e di Balla coi Lupi. Quei meravigliosi disegni che sembravano un misto tra stampa e fotografia e che racchiudono invece almeno un mese di lavoro e tecniche miste di pittura e aerografia. E queste sono solo una citazione della punta di un iceberg che comprende più di 1500 opere.
Lui e la moglie sono meravigliosi insieme, quelle persone che sembrano completarsi proprio come la vite e il proprio dado in un bullone. Lei ci racconta ironicamente scherzando che non ha “mai provato a utilizzare l’aerografo e mai lo farà, perché un re in casa basta, e perché lui è quello che fa l’arte, e lei i soldi”.
Se mi chiedessero di definire Renato Casaro, l’immagine di lui che ho stampata negli occhi dal momento in cui ci siamo seduti a parlare, è dell’uomo innamorato della propria vita. Di una vita vissuta per davvero, che l’ha portato nella direzione che voleva proprio perché ci ha sempre creduto, con cui potrebbe tranquillamente girare uno di quei film di cui si è trovato a disegnarne il manifesto.
La passione nasce dalle elementari, con i quaderni pieni di scarabocchi e i compiti che la suora gli faceva disegnare alla lavagna per il giorno dopo. Da lì è stato un susseguirsi di tasselli che si sono incastrati come i pezzi di un puzzle perfetto. Prima l’agenzia pubblicitaria, poi il lavorare per il cinema pitturando i sagomati di cartone, per guadagnare qualche soldo e l’ingresso gratuito alle proiezioni. Ma la svolta è Roma, dove arriva a Cinecittà grazie a qualche foto scattata proprio a quei sagomati, nonostante i pianti della madre “perché andare a Roma, allora, era come arrivare oggi in America”. E a solo vent’anni si ritrova a dipingere i manifesti di alcuni dei film più famosi al mondo e a iniziare una carriera che l’avrebbe portato lontano.
L’aerografo è arrivato dopo, apprendendo l’esistenza della tecnica da alcuni artisti giapponesi ed essendo il primo ad applicarla nel mondo del cinema.
E da lì è stato sempre un crescendo, complice il fatto che “si è sparsa la voce che portavo fortuna e quindi tutti chiamavano me. Devo dire che una delle più grandi soddisfazioni è stata che nessuno mi ha mai chiesto di modificare un bozzetto. Ma infondo, pensandoci bene, non l’avrei mai fatto.”
Gli chiediamo allora se c’è un lavoro che ha nel cuore più degli altri e se c’è un motivo ricorrente nelle sue opere. E la risposta è quella di chi ama ciò che fa come fosse un pezzo di se stesso, perché non potrebbe mai sceglierne una piuttosto che un’altra, dato ognuna ha una storia e dei ricordi legati ad essa. Il suo punto fisso è invece la costruzione grafica, un elemento ricorrente che è sempre presente ma nascosto agli occhi di chi non lo sa vedere; eppure la struttura geometrica è l’impalcatura su cui costruire tutto il lavoro e le forme, quella griglia invisibile a cui non rinuncerebbe mai.
Mentre parla mi fermo a guardare gli occhi di un uomo che ha vissuto, ma che ha l’anima che è ancora in fermento per tutto quello che ha visto e a cui ha partecipato. Perché questo lavoro, questa passione, l’hanno portato in situazioni che sono difficili anche solo da immaginare se non vissute, che rimangono nella memoria a distanza di decenni e che appartengono al mondo folle del cinema, pieno di eventi, cene, prime serate spettacolari e tanta emozione.
Poi resta un attimo in silenzio e con un po di nostalgia, ma con la consapevolezza di chi non ha rimpianti mi dice: “Mi sono fermato all’apice. Ed è giusto così, come un pugile che deve dire basta quando è campione del mondo e non quando invece viene buttato al tappeto.”